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Intervista con Mario Adinolfi: Cosa resta dell’era dei blogger?

Luglio è stato scelto come data simbolica della nascita del blog, il padre è Dave Winer che sviluppò il software alla base del sistema di pubblicazione dei contenuti. I blog segnano una nuova era, quella dell’ingresso delle comunità digitali nell’agone pubblico. Stravolgono linguaggi e modalità di interazione, una nuova esperienza comunitaria cresciuta attorno alle piattaforme. Il fenomeno prese piede in Italia qualche anno più tardi nel 2001 con l’arrivo dei primi servizi di gestione. Prima degli influencer, ricordiamolo, esistevano i blogger. Citati e coinvolti dai media mainstream per dare movimento ai confronti e rimpolpare i palinsesti, portavano nella sfera pubblica visioni alternative, innovative, programmi politici e culturali per l’epoca rivoluzionari. Alcuni scelsero la mobilitazione culturale, altri monetizzarono sulle community, altri ancora provarono a convertire in consenso la capacità mobilitativa sul web scegliendo la politica. Oggi hanno tra i quaranta e i cinquant’anni. Mario Adinolfi, presidente del Popolo della Famiglia, è uno dei protagonisti di questa generazione di pionieri digitali. Da blogger prese la via della politica, prima come candidato sindaco al comune di Roma, poi come candidato alle primarie del Partito Democratico. Il primo blogger in Parlamento, prima dell’avvento di Grillo, prima dei social network. Ecco cosa ha rappresentato quella stagione e cosa resta dei blogger.

Mario Adinolfi nel 2007 parlava di sé come “un blogger che vuole cambiare l’Italia“. Una definizione che oggi non esiste più. Cosa voleva dire per lei essere un blogger?
«Piuttosto semplice: avere un blog e scriverci tutti i giorni. Vent’anni fa non eravamo in molti».

Il blog come fenomeno è arrivato in Italia con qualche anno in ritardo rispetto agli Stati Uniti, il primo nel 1997 era un aggregatore di link sul tema caccia. Quali peculiarità aveva l’esperienza italiana? 
«L’esperienza dei pionieri del blog dei primi Anni Duemila si caratterizzava in Italia per la dimensione comunitaria. Si apriva il blog su una piattaforma e si apparteneva a quella comunità. Io lo feci su Il Cannocchiale, piattaforma su cui sono cresciute esperienze importanti, tra cui la mia».

Quali esperienze e quali personalità della cultura digitale aveva come riferimento?
«Nessuna. Avevo letto come molti Being digital di Nicholas Negroponte, avevo colto anche attraverso quel libro la rivoluzione che avrebbe trasformato le nostre vite. Ma poi tutto si è sviluppato quasi per caso, non per seguire personaggi o quella che sembrava la moda del momento. Ero all’Old Trafford per la finale di Champions League tra Milan e Juve, perdemmo ai rigori e per giorni fui intrattabile. Al ritorno a Roma la mia fidanzata di allora mi fece trovare il blog pronto, se lo aprì anche lei con un qualche successo. Cercai di non sfigurare ai suoi occhi, di reggere il confronto».

Prima dei social network il blog rappresentava un’alternativa a chi non aveva accesso ai canali convenzionali, una forma di contributo individuale al dibattito pubblico. Si riusciva ad essere incisivi?  
«Raramente eravamo davvero incisivi, ma eravamo circondati da un alone di curiosità: “Vediamo cosa dicono i blogger”. Così i più lesti tra noi si conquistarono un minimo di spazio nella comunicazione mainstream. Non contavamo nulla, ma c’eravamo».

Cosa aveva di diverso quel modo di comunicare?
«Era secco, decisamente meno ampolloso, era un modo di dire le cose in maniera irriverente, capace di libertà espressiva che la comunicazione mainstream non poteva permettersi. Spesso bastava una sola frase. Lo capì bene chi poi ha inventato Twitter».

Nascevano delle vere e proprie comunità digitali. Erano più solide rispetto a quelle attuali? E perché?
«Le comunità erano solide perché l’interazione era forte e continua, si inventava insieme un percorso nuovo e la cosa entusiasmava. Anche le liti, le rissosità, paradossalmente cementavano quelle comunità di blogger e facevano diventare quell’esperienza piuttosto dominante nella quotidianità dei protagonisti. Il blogger divenne quasi una professione, certamente una forma identitaria, grazie alla comunità in cui quell’attività si snodava».

Lei è stato tra i primi in Italia ad aver provato a convertire la mobilitazione digitale in consenso politico. Ha avuto coraggio. Provò a correre alle primarie. Aveva 36 anni. C’era del rivoluzionario… 
«Molto prima, nel 2001, mi candidai a sindaco di Roma fondando la lista Democrazia Diretta. Avevamo come simbolo la chiocciola di internet blu su sfondo arancione. Fu un’esperienza collettiva che meriterebbe una serie Netflix, sfidammo colossi del calibro di Walter Veltroni e Antonio Tajani. Prendemmo meno di duemila voti, ma Veltroni al primo turno si fermò a pochi decimi dalla maggioranza assoluta e così il nostro consenso divenne decisivo. Avevamo un programma rivoluzionario tutto connettività, hi tech economy e car sharing per alleggerire Roma dalla tragedia del traffico. Nel 2001 nessuno in Italia aveva mai sentito parlare di car sharing o considerava il diritto all’accesso a internet come necessità primaria. Veltroni ci corteggiò, ci vennero promessi mari e monti, gli regalammo i voti per farlo vincere. Ma nessuna promessa fu mantenuta. Per un gruppo di ragazzi di cui io ero il più vecchio a neanche trent’anni, fu una enorme delusione. Ma anche un chiaro monito mi si affacciò alla mente: la politica tradizionale avrebbe pagato cara quell’arroganza».

Forse l’Italia non era ancora pronta…. 
«Eravamo ovviamente molto in anticipo sui tempi e alle primarie del 2007, quando sfidai di nuovo Veltroni con lo stesso gruppo di ragazzi prevalentemente blogger come me per la leadership fondativa del Partito democratico, prendemmo più o meno gli stessi voti. Ma qualcosa l’avevamo davvero mosso. Alle elezioni politiche del 2008 il Pd mi mise in lista e poi per un complicato gioco di subentri sono diventato il primo blogger deputato della Repubblica. Entrai alla Camera con un Ipad e filmai il mio primo voto di fiducia, subito ripreso dai commessi. Pubblicavo i filmati dei miei interventi in aula su Youtube e i colleghi parlamentari sgranavano gli occhi. In quella sedicesima legislatura repubblicana dimostrai da solo come sarebbe cambiata la politica italiana. Litigai con il Pd e non mi ricandidai. Al posto mio nella legislatura successiva arrivarono i grillini».

Poi è arrivato Grillo con il suo blog. Scriveva il Time: “parla il linguaggio internazionale dell’indignazione”. Lei è stato spesso duro, a volte durissimo. Ma mai indignato.   
«Beppe Grillo partiva da un dato fondamentale: era clamorosamente noto, non c’era italiano che non lo conoscesse. Nei suoi spettacoli dei primi Anni Duemila i computer Grillo li distruggeva. Non è un nativo digitale, ovviamente, ma un personaggio del mainstream. Quel genio visionario di Casaleggio, che invece aveva colto pienamente quel che io raccontavo dal 2001 sulla disintermediazione della politica provocata da internet (avevo una rubrica quotidiana sul giornale Europa, rubrica che si intitolava Bloggeria, in più per le primarie avevo scritto il libro Generazione U in cui spiegavo tutta l’esperienza di Democrazia Diretta, insomma aveva fonti da cui pescare), ha capito anche quale fu il mio errore: non si poteva imporre la rivoluzione dei blogger in politica dal basso, con gli sconosciuti. Serviva un testimonial perfettamente noto al grande pubblico. Casaleggio individuò Grillo, lo catechizzò, lo convinse. Grillo di suo mise la carica iconoclasta distruttiva del sistema, che lo animava rabbiosamente dai tempi della battuta sui socialisti in Cina davanti al povero Pippo Baudo costretto a “dissociarsi” subito in diretta tv. Con i vaffa Day Grillo inventò la valanga, l’indignazione fu un’arma usata indiscriminatamente. Io avevo un approccio più colto, più intellettuale e più politico. Ero un’antitesi al sistema alla ricerca hegeliana di una sintesi. Beppe Grillo manco sa chi sia Hegel, i suoi adepti non ne parliamo proprio. Non poteva che vincere la semplificazione grillina, il noi contro di loro. Ovviamente rapidamente si sono trasformati in loro, con i peggiori vizi e inclini a qualsiasi becero compromesso pur di mantenere la poltrona. Esito tristissimo ma prevedibile».

Avevate un sogno di società digitale? È stato tradito?
«Il sogno era un’Italia più efficiente, più democratica, più partecipata, più pulita, più produttiva, più giovane, più tecnologica: più ricerca e meno assistenzialismo statale, più connessa e meno corrotta, più capace di ridurre le diseguaglianze e meno ingiusta. Forse poteva essere racchiuso tutto questo programma, sì, nell’idea di un’Italia digitale del terzo millennio capace di tornare ai fasti dell’Italia entusiasta e capace di innovare che caratterizzò la generazione del boom degli Anni Cinquanta e per certi versi anche quella dell’Italia quarta potenza economica mondiale degli Anni Ottanta. La sfida dell’innovazione positiva è stata persa e provo dolore per l’occasione che ci siamo lasciati scappare. Sì, il progetto (perché alla fine era un progetto, non un sogno) è stato tradito e le conseguenze le paghiamo tutti».

La stagione dei blogger è forse defunta. Cosa resta?
«Certamente la stagione dei blogger è finita. Ci siamo trasferiti tutti sui social. Ora tocca agli influencer. Non mi pare una trasformazione in meglio».

I blogger hanno cambiato l’Italia? 
«Ci abbiamo provato a cambiare l’Italia. In qualcosa siamo anche riusciti. Complessivamente, lo dobbiamo ammettere, abbiamo fallito. Ma qualche riga della storia di questo Paese i blogger italiani l’hanno scritta».

(Di Mario Cossu – The Watcher Post)

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